
Donne tra talenti e opportunità
Ogni persona possiede talento in misura più
o meno rilevante. Il talento consiste in capacità,
doti e predisposizioni, in genere naturali,
che le persone possono realizzare in ambito
lavorativo o extra-lavorativo nell’arco
della loro vita. Problemi possono nascere nell’incontro
tra talenti e opportunità, perché
solo dal match tra questi due fattori scaturisce
la possibilità per le persone di realizzarsi.
Nel caso delle donne l’emersione dei talenti
è complicata da una serie di ulteriori
ostacoli di carattere storico, sociale e culturale.
Tanto che è importante che la realizzazione
delle loro potenzialità sia incoraggiata
da una serie di prerequisiti e condizioni che
possono facilitare il percorso. Quali sono questi
fattori favorenti?
Innanzitutto il debito di gratitudine nei confronti
di quelle donne che nella storia, più
o meno recente, hanno aperto le porte ad alcuni
ambiti professionali fino ad allora a totale
appannaggio degli uomini. Sono donne che hanno
avuto l’ardire o l’intuizione o
semplicemente l’occasione di percorrere
strade innovative o essere le prime a cimentarsi
in attività o ruoli, rompendo gli schemi
in essere. Il loro esempio è stato ed
è molto importante, perché grazie
a loro tante altre donne hanno trovato il coraggio
di sperimentare nuovi percorsi. Questo riguarda
i più diversi settori professionali ed
è accaduto, in molti casi, in tempi affatto
lontani. Alcuni esempi. In ambito politico,
il primo ministro donna si è avuto solo
venti anni dopo la proclamazione della Repubblica,
nel 1976, con Tina Anselmi. La prima donna a
ricoprire una delle più alte cariche
dello Stato, quella di Presidente della Camera
dei deputati, è stata Nilde Iotti nel
1979, incarico che detenne per tre legislature
fino al 1992. In campo economico, Luisa Spagnoli
è considerata una delle prime grandi
imprenditrici italiane per aver creato una azienda
familiare, diventando negli anni quaranta un
lungimirante capitano d’industria. Marisa
Bellisario invece può essere considerata
la prima manager che è riuscita a ricoprire
cariche apicali in aziende di rilevanza nazionale:
nel 1979 come presidente dell’Olivetti
Corporation e nel 1981 dirigendo Italtel. Dobbiamo
aspettare il 1964 per avere le prime otto donne
magistrato, dopo la legge che ha aperto le porte
delle cariche pubbliche alle donne. Negli anni
70 Oriana Fallaci è stata la prima ad
andare al fronte in qualità di inviata
speciale. Solo nel 1986 un’italiana è
stata insignita del premio Nobel per la medicina:
Rita Levi Montalcini, ammessa anche alla Pontificia
Accademia delle Scienze. Non mancano donne pioniere
anche negli anni più recenti: la prima
italiana a partecipare ad una missione nello
Spazio è Samantha Cristoforetti nel 2014.
Queste e tante altre donne hanno sfondato i
muri invalicabili di professioni svolte solo
dagli uomini, aprendo le porte a molte altre
che ne sono seguite. Il loro esempio è
fondamentale anche per tutte coloro che vogliono
spingersi in strade non ancora battute.
Altro fattore che è condizione indispensabile
per l’espressione dei talenti è
l’esistenza di un substrato normativo
che possa fornire adeguate garanzie.
Se ci guardiamo alle spalle emerge che molti
dei diritti che consideriamo consolidati sono
in realtà frutto di battaglie e rivendicazioni
alquanto recenti e risalenti al secolo scorso.
A fronte di un arco temporale non enorme, si
è realizzato un mutamento sociale rilevante
al punto che le giovani generazioni di oggi,
nate e cresciute con tutta una serie di diritti
acquisiti, hanno difficoltà a rendersi
conto di quanto siano recenti queste conquiste
e del fatto che le loro madri, in molti casi,
e sicuramente le loro nonne hanno vissuto con
ben altre prerogative. Si fa riferimento a diritti
importanti. Ad esempio, il diritto di voto risale
solo al 1946 e dobbiamo aspettare fino all’ultimo
decennio del novecento perché si apra
il dibattito normativo per l’accesso effettivo
delle donne alle cariche elettive, dibattito
tra l’altro ancora caratterizzato da contorni
non molto convincenti.
Altro ambito riguarda il lungo percorso normativo
finalizzato alla tutela delle madri lavoratrici
che si avvia negli anni cinquanta. Si inizia
dal divieto di licenziamento nei primi mesi
dopo la nascita del figlio e dall’obbligo
di risparmiare alle gestanti lavori pericolosi
e particolarmente faticosi. Seguono negli anni
successivi il divieto di licenziamento durante
la gestazione, l’astensione obbligatoria
prima e dopo il parto, l’astensione facoltativa,
fino ad arrivare, in anni più recenti,
al congedo parentale ed alla tutela della maternità
e della paternità.
Se risalgono alla fine degli anni settanta i
primi interventi legislativi per garantire la
parità di trattamento e limitare le discriminazioni,
è del 1991 la legge sulle azioni positive
per la realizzazione delle pari opportunità
nel campo del lavoro; e bisogna aspettare gli
anni più recenti per il divieto della
pratica delle dimissioni in bianco. Questi e
tanti altri provvedimenti si sono proposti di
garantire alle donne l’uguaglianza nell’accesso
al lavoro, nella formazione professionale, nelle
retribuzioni e nell’attribuzione di qualifiche
professionali, obiettivi purtroppo non ancora
raggiunti dal punto di vista sostanziale.
Solo nel 1963 una legge ha dato applicazione
al dettato costituzionale ammettendo le donne
a tutte le cariche, professioni o impieghi pubblici:
si sono in questo modo aperte le porte della
magistratura e della carriera prefettizia e
diplomatica. Dal 1999 è diventato possibile
anche l’ingresso delle donne nelle Forze
Armate. Sono invece degli anni duemila molti
degli interventi legislativi su temi particolarmente
rilevanti ed attuali come la violenza sulle
donne, i maltrattamenti domestici, lo stalking
ed il femminicidio. Il substrato normativo è
quindi una condizione sine qua non per l’esplicarsi
dei talenti delle donne.
Altro fattore molto importante che favorisce
l’emersione dei talenti e che necessita
un ruolo attivo della donna è l’investimento
nella formazione scolastica, che comprende ovviamente
anche l’alfabetizzazione digitale. Dal
Rapporto sulla conoscenza (ISTAT, 2018) mettiamo
a fuoco che il capitale di conoscenze derivante
dall’istruzione amplia le opportunità
delle donne, ma più in generale consente
loro di decodificare la complessità delle
informazioni, permettendo una maggior consapevolezza
e conseguentemente migliori condizioni di vita.
In relazione ai numeri, l’Italia presenta
un ritardo storico nell’istruzione rispetto
ai paesi più avanzati, attribuibile in
larga misura alle classi di età più
anziane. Nel 2016, la quota di persone tra i
25 e i 64 anni con almeno un titolo di studio
secondario superiore è del 60,1%. Nonostante
un incremento di 8 punti rispetto al 2007, l’Italia
si colloca circa 17 punti percentuali al di
sotto della media europea. Analogamente, le
persone con un titolo di studio terziario sono
il 17,7% contro il 30,7% della media UE. I livelli
di istruzione della popolazione adulta sono
molto variabili sul territorio: in particolare
è il Sud a presentare livelli più
bassi di istruzione. L’Umbria si pone
al di sopra della media nazionale, ma ancora
lontana dalla media europea, con il 67,7% della
popolazione tra 25 e 64 anni con almeno un titolo
secondario superiore ed il 20,7% con un titolo
terziario. Il bilancio di genere per istruzione
vede in ogni caso una prevalenza di donne con
un titolo di studio più alto che si accentua
tra le laureate.
Avere basi solide dal punto di vista dell’istruzione
è un presupposto fondamentale per potersi
realizzare professionalmente. L’istruzione
infatti risulta un correttivo importante nei
confronti delle difficoltà che le donne
incontrano nel mercato del lavoro. Esiste infatti
un vero e proprio divario di genere (ISTAT,
2018): il tasso di occupazione delle donne in
Italia nel 2017 è del 48,9% contro il
67,1% degli uomini. L’Umbria con un tasso
femminile del 55,1% e un tasso maschile del
71% supera la media nazionale, ma risulta lontana
da livelli auspicabili. Coerentemente i tassi
di disoccupazione (Italia: uomini 10,6% e donne
12,5%; Umbria: 9,8% e 11,9%) e di inattività
(Italia: uomini 25% e donne 44,1%; Umbria: 21,3%
e 37,4%) vedono sfavorite le donne.
Molte ricerche individuano tra le determinanti
delle differenze di genere sul mercato del lavoro
la genitorialità come uno dei fattori
più influenti: la nascita di un figlio
ha conseguenze significative sulle scelte e
sulle prospettive della madre in quanto riduce
sensibilmente le probabilità di continuare
a lavorare oltre che intaccare le possibilità
di carriera. Più figli si hanno e maggiore
è il divario nei tassi d’occupazione
femminile e maschile. Le stesse ricerche però
sostengono che il livello di istruzione costituisce
un rilevante correttivo in tal senso. Essere
istruite è importante anche per combattere
le difficoltà di accesso e permanenza
delle donne nel mondo del lavoro. Secondo l’ISTAT
(2017) su 100 occupate senza figli, le madri
lavoratrici con bambini piccoli sono circa il
76%. Ma il gap rispetto alle donne senza figli
si riduce al crescere del titolo di studio;
il rapporto sale dal 55,6% per le donne con
al massimo la licenza media, al 76,3% per le
diplomate, fino ad arrivare al 90,1% per le
laureate. Ecco perché è importante
investire in istruzione per le donne. Giunti
a questo punto della riflessione è necessario
riflettere su come mai le madri hanno minori
opportunità nel mondo del lavoro.
Innanzitutto vi è una minore propensione
ad assumere donne, una sorta di “resistenza”
del mondo del lavoro all’occupazione femminile
in relazione alla genitorialità. A questo
va aggiunto che le donne stesse mostrano difficoltà
a svolgere con serenità il percorso lavorativo
per problemi di conciliazione vita lavoro. Come
documenta l’Istat da anni, quasi una madre
su quattro tra quelle occupate lascia il lavoro
nei due anni successivi alla nascita di un figlio.
La rinuncia all’occupazione può
essere inizialmente considerata come temporanea,
ma le difficoltà a rientrare più
in là con gli anni sono alte. Le cause
dell’abbandono del lavoro sono tante:
difficoltà di conciliazione famiglia
lavoro, orari e organizzazione del lavoro poco
flessibili, una divisione delle incombenze tra
madri e padri ancora asimmetrica, ancorché
in lieve miglioramento, servizi per la prima
infanzia scarsi e costosi.
Arriviamo quindi ad uno dei fattori che rappresenta
un prerequisito indispensabile per le donne
per esprimere le loro potenzialità, ovvero
la presenza di politiche e misure per la conciliazione.
A tale proposito è importante premettere
che il lavoro di cura inteso come accudimento
dei figli o assistenza agli anziani rientra
nell’alto dovere del perpetuarsi della
vita e nel novero della solidarietà tra
generazioni. Quindi è un dovere di tutti
e sta in capo più in generale alla società.
Eppure le donne non solo sono ancora percepite
come le prime responsabili della famiglia e
della casa (OCSE), ma nei fatti il lavoro di
cura grava ancora in maniera consistente su
di loro. Nel Rapporto annuale Istat 2017 si
legge che in tutti gli Stati membri c’è
una percentuale maggiore di donne, rispetto
agli uomini, che si occupa della cura dei figli,
dei lavori domestici e della cucina. Nel 2016
nell’UE il 92% delle donne tra i 25 e
i 49 anni (con figli sotto i 18) si sono prese
cura quotidianamente dei figli, rispetto al
68% degli uomini. In Italia le percentuali sono
rispettivamente del 97% e del 73%. Riguardo
alle attività domestiche e alla cucina,
le differenze tra donne e uomini sono ancora
maggiori: nei paesi UE 79% rispetto al 34%;
in Italia 81% rispetto al 20%. C’è
quindi necessità da un lato di una maggiore
equidistribuzione tra i sessi, e dall’altro
di politiche più attente alla conciliazione
vita lavoro.
Un tentativo importante di una più corretta
divisione delle attività familiari è
stato quello effettuato agendo sulle prestazioni
a sostegno della genitorialità. Il Testo
unico sulla maternità e paternità
e le successive normative (la Legge 92 del 2012,
il Jobs Act e le varie Leggi di stabilità)
hanno introdotto correttivi con l’obiettivo
di promuovere una cultura di maggiore condivisione
dei compiti di cura dei figli all’interno
della coppia. Le recenti normative hanno introdotto
delle innovazioni nell’ambito delle politiche
familiari: sono previsti due giorni di congedo
obbligatorio per i padri, da utilizzare entro
i primi 5 mesi di vita del bambino con un’indennità
pari al 100% del salario; inoltre è stato
introdotto il congedo parentale facoltativo
per il padre e la madre per un totale di 10
mesi entro i 12 anni del bambino, con un bonus
di un mese in più se l’uomo usufruisce
di almeno tre mesi di congedo. I primi risultati
del monitoraggio di tali strumenti effettuati
nell’ambito del Rapporto INPS (2017) mostrano
però che la strada da fare è ancora
lunga. Per quanto concerne il congedo di paternità,
l’adesione dei padri, sebbene in costante
aumento negli anni della sperimentazione, è
molto più bassa di quella potenziale:
sul totale delle nascite solo un terzo dei padri
occupati nel settore privato hanno preso il
congedo di paternità, inoltre, più
nelle grandi che nelle piccole imprese, più
nel Nord che nel Mezzogiorno, più tra
gli impiegati e funzionari che tra gli operai.
Di fatto poi i padri non fruiscono, se non in
percentuali bassissime, del congedo parentale.
Un buon impatto ha avuto invece il Bonus Infanzia,
che dal 2012 permette alle donne lavoratrici
dipendenti, ma anche alle autonome, negli undici
mesi successivi al termine del congedo di maternità
obbligatorio, di richiedere, per un massimo
di sei mesi, in sostituzione del congedo facoltativo,
un voucher per i servizi di baby sitting o un
contributo per pagare la rete pubblica dei servizi
per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.
Il Bonus permette alle donne di tornare a lavoro,
evitando la decurtazione di salario che si ha
con l’indennità di congedo genitoriale
(30%). Sono state poi introdotte varie altre
misure, come ad esempio il Bonus bebè,
il Bonus mamma domani, i contributi per asili
nido e supporto domiciliare per bambini di meno
di tre anni affetti da gravi patologie croniche,
oltre ai benefici della L. 104 del 1992 (assistenza
a familiari disabili).
A fianco delle misure normative esiste anche
tutta una serie di interventi favoriti dall’attivismo
del terzo settore, dalla libera iniziativa di
tanti imprenditori-imprenditrici illuminati
e dai fondi europei. Tali opportunità,
dai contorni non sempre definiti e conosciuti,
sono sicuramente di grande rilevanza, anche
se i problemi rimangono.
Un segnale recentissimo decisamente incoraggiante,
che presenta una grande potenzialità
per la conciliazione, è rappresentato
dalle novità apportate dalla Legge 81
del 2017. La normativa prevede l’introduzione
nel nostro sistema lavoro, pubblico e privato,
dello strumento dello smartworking, noto anche
come lavoro agile. Non si tratta di una nuova
tipologia contrattuale ma di una diversa modalità
di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato
caratterizzata dall’assenza di vincoli
orari o spaziali e da un’organizzazione
per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante
accordo tra dipendente e datore di lavoro. Condizione
per la realizzazione del lavoro agile sono gli
strumenti tecnologici forniti dal datore di
lavoro (pc portatili, tablet e smartphone).
Tale approccio organizzativo risulta positivo
in quanto riesce a contemperare le esigenze
di conciliazione dei tempi di vita lavoro del
lavoratore, in maniera complementare, con quelle
di crescita della produttività dell’impresa.
Questo nuovo strumento racchiude grandi potenzialità
in quanto la dematerializzazione del rapporto
di lavoro può mettere in risalto maggiormente
le qualità ed i risultati del lavoro
(più che la presenza e la durata), fattori
che possono solo favorire le donne.
Le misure elencate (seppure non esaustive) dimostrano
che da tempo esiste una focalizzazione sul tema
delle giuste opportunità delle donne
nel mondo del lavoro. Purtroppo però
i dati dimostrano che quanto fatto non è
ancora sufficiente e che occorre un rinnovato
impegno in tale direzione.
©Agenzia
Umbria Ricerche
31 luglio 2018