
Economia e luoghi
Dovendo parlare di luoghi e
del loro carisma in termini economici, è
arduo rimanere su un piano ideale ed evocativo,
quello che rinvia, per intenderci, all’anima,
al genius loci; l’approccio pragmatico
diventa inevitabile quando ci si riferisce a
certi asset determinanti l’appeal economico:
se pensiamo ad esempio ai vantaggi competitivi
derivanti da una buona dotazione infrastrutturale
è molto facile dimenticarci del concetto
di carisma perché vengono in mente aspetti
di altra natura che riguardano, in questo caso,
la facilità con cui cose e persone possono
muoversi dentro e fuori un determinato territorio.
Tuttavia, nel corso di questa riflessione, riusciremo
a richiamare il concetto di carisma pur parlando
di cose di economia.
Partiamo con il cercare di dare una definizione
di attrattività di un luogo. Quando un
luogo è attrattivo da un punto di vista
economico? Quando riesce ad attirare dall'esterno
uomini, capitali, investimenti, attività
produttive e a mantenere tali risorse nel lungo
periodo. Essa dipende fortemente anche dalla
capacità di far circolare flussi di informazioni,
tecnologie, capitali, cultura, persone e organizzazioni.
Fermo restando che il grado di attrattività
non discende dall'azione delle componenti prese
singolarmente, ma è il risultato del
loro agire interrelato, sistemico, integrato.
In generale, ad attrarre un luogo dal punto
di vista economico sono la dotazione di infrastrutture
fisiche, di insediamenti innovativi, di servizi
qualificati, di risorse scientifiche e tecnologiche;
sono la facilità di accesso al credito,
la qualità del sistema formativo, il
know how diffuso, ma anche sistemi di welfare
efficienti, la presenza di infrastrutture culturali,
ambientali, ricreative e di risorse umane qualificate,
in generale una buona qualità della vita.
Da questo punto di vista, l’Italia si
pone come fanalino di coda rispetto ai paesi
OCSE quanto a capacità di attrarre cervelli.
In realtà ne perde molti, anche dalle
città più dinamiche del Nord.
L’Umbria, dal canto suo, denuncia una
nota strutturale sofferenza: giovani qualificati
sono costretti ad andarsene perché il
mercato regionale non riesce a inserirli. E
questo non va bene: per l’appeal di un
territorio il presidio di risorse umane qualificate
è uno degli elementi fondamentali per
la sua forza attrattiva e per il suo sviluppo.
Come pure fondamentale è la qualità
delle strutture deputate alla formazione: pensiamo
al ruolo svolto da Università di pregio
sia come appeal (che a volte si fa vero e proprio
carisma), sia per i risvolti sociali sia per
l’indotto economico. Stando alle ultime
notizie, l’Ateneo perugino è salito
nella graduatoria del CENSIS in prima posizione
tra le università italiane dimensionalmente
“grandi”, un risultato che, nel
sottendere e allo stesso tempo alimentare l’appetibilità
dei nostri luoghi, si fa strategico considerando
l’importante ruolo giocato dalla presenza
di centri universitari di qualità.
Da una recente ricerca italiana, che ha costruito
un indice di attrattività per ciascuna
delle 20 regioni sulla base di 10 drivers diffusi
in letteratura, è emerso un risultato
piuttosto deludente: nel 70% dei casi (14 regioni,
omogeneamente distribuite tra Nord, Centro,
Sud e Isole) tra cui l’Umbria, l’indice
risulta basso, nel 20% dei casi discreto e solo
una regione, la Lombardia, è giudicata
ottima.
Sappiamo tuttavia (ne avevamo parlato la volta
scorsa) che l’attrattività è
fortemente condizionata dalla immagine del territorio
stesso: entra in gioco il ruolo del brand, l’”immagine
globale del territorio”, che ne intercetta
la dimensione politica, economica, sociale,
storica e culturale ed esprime un concetto multidisciplinare
che sintetizza elementi oggettivi, valoriali,
emozionali dell’offerta di quel territorio.
Quanto più un brand è forte tanto
più riesce a identificare, distinguere,
valorizzare il territorio stesso e generare
attrattività per investimenti diretti,
attività economiche, esportazioni, capitale
umano. La percezione dell’immagine diventa
decisiva per l’attrattività quando
si decide la meta per la vacanza, la città
dove andare a studiare o dove chiedere un trasferimento
di lavoro, la località dove acquistare
prodotti artigianali o quella dove avviare una
certa attività economica.
L’indice di brand regionale costruito
per le 20 regioni italiane ha restituito una
situazione molto più positiva rispetto
a quanto emerso con l’indice di attrattività,
perché assegna al 25% delle regioni un
giudizio discreto, al 70% di esse, tra cui l’Umbria,
un giudizio buono e in un solo caso, la Toscana,
un giudizio ottimo; sono assenti situazioni
valutate con un livello “basso”.
Comparando i due indici esistono numerose regioni,
come l’Umbria, definite “evergreen”
le quali, pur in presenza di un brand elevato,
sono scarsamente attrattive quanto a persone,
risorse, capitali. L’innalzamento dell’attrattività
di quei luoghi implicherebbe accrescere tutti
i driver considerati. Ciò in considerazione
del fatto che “interventi parziali o non
uniformemente distribuiti provocherebbero l’effetto
opposto, perché la componente che riceverà
meno investimenti diventerebbe il punto debole
del sistema e la sua debolezza sarebbe amplificata
dal potenziamento delle altre. Semplificando
con un esempio, se volessimo intervenire fortemente
sull’innovazione e sull’imprendi-torialità,
ma trascurassimo le infrastrutture, emergerebbe
subito la fallacità del piano”.
È importante l’attrattività
per un territorio? Sì, lo è e
molto, perché lo sviluppo implica il
presidio di attività economiche e di
risorse umane qualificate, scambi di conoscenze
e stimoli, continui e duraturi.
Pensando a un approccio più olistico
del concetto di attrattività, non posso
non richiamare il pensiero del grande maestro
di economia locale, Giacomo Becattini, che ha
umanizzato i luoghi intesi come agglomerati
produttivi visualizzandoli come addensamenti
di “coralità produttiva e civile”,
esito dell’agire di fenomeni naturali,
storici e antropologici da parte di istituzioni
locali, famiglie, imprese, associazioni. Coniando
il concetto di “coscienza dei luoghi”,
che poi è il senso di appartenenza dei
cittadini e degli imprenditori su cui poggia
l’identità di un luogo, ha stravolto
la concezione fordista di territorio che, da
semplice base produttiva, diventa una vera e
propria risorsa, con la sua dotazione di saperi,
cultura, sedimentazioni storiche e antropiche,
con la sua condivisione di valori e attitudini
di comunità locale.
Con questa visione, l’interazione tra
aspetto produttivo e aspetto sociale e culturale
è evidentemente fortissima: cultura e
saperi locali permeano le produzioni che possono
diventare a loro volta espressione del portato
identitario dei territori stessi. La ricchezza
del capitale sociale e umano, l’insieme
di conoscenze e competenze costituisce di per
sé un motivo di grande appeal, un concetto
sul quale tornerò tra breve.
Coleman nel 1990 scrisse: Il territorio è
il luogo in cui l’impresa trova le ragioni
del suo essere e del suo divenire, attingendo
al giacimento del “capitale sociale”
disponibile. La compenetrazione tra sfera economica
e sociale è stata cruciale - ad esempio
- per la reattività alla crisi: tra il
2008 e il 2014 i distretti, i luoghi maggiormente
dotati di “coscienza”, sono quelli
che hanno affrontato meglio la crisi registrando
una ripresa quanto a produttività, occupazione,
politica dei marchi, esportazione e capacità
di attrarre multinazionali straniere. Si tratta
di realtà dinamiche con precisi punti
di forza: capacità di innovazione, qualità
altissima dei prodotti, brevetti, capacità
di conquistare i mercati internazionali, ma
soprattutto un’alta concentrazione di
fattore umano, che unisce l’impegno dell’imprenditore
con quello di chi lavora a vari livelli.
L’Italia, come anche l’Umbria, sono
un caleidoscopio di luoghi che poggiano sulla
coralità sociale.
Alcuni sistemi dell’Umbria, pur non decollati
mai a distretti secondo l’accezione becattiniana,
si sono caratterizzati per una operosità,
una positività imprenditoriale, un “saper
fare” declinato su diversi terreni che
ha intercettato una importante coesione sociale.
Quella certa Umbria dello sviluppo policentrico,
che a lungo l’ha caratterizzata, ha consentito
una crescita diffusa sul territorio.
Oggi, in presenza di riferimenti completamenti
mutati, si può dire che l’Umbria
sia un territorio appetibile dal punto di vista
economico?
Abbiamo visto che l’indice di attrattività
è basso, ma del resto anche altre 13
regioni hanno ottenuto questo giudizio. Poiché
invece la valutazione in termini di brand è
buona, occorre proseguire con questa riflessione,
cercando di cogliere i fattori che intercettano
i due piani di analisi e che sono diventati
oggi i veri protagonisti dell’appeal economico.
Gli studi di certe città che, in declino
negli anni 70-80 si sono rivitalizzate di recente,
hanno dimostrato che la ragione di questo loro
rifiorire non si rintraccia tanto nella presenza
di fattori tradizionali, quanto nella intensità
dei contatti personali con cui si scambiano
informazioni, idee, stili di vita e nella velocità
con cui tali risorse circolano. Non è
una novità, visto che è alla concentrazione
nei luoghi di capitale umano che si riconosce
tradizionalmente il vero motore dello sviluppo
locale (J. Jacobs). Lo abbiamo detto poc’anzi,
l’economia diffusa delle agglomerazioni
di piccole e medie imprese traeva i suoi vantaggi,
oltre che dalla continuità fisica delle
imprese, dall’alta concentrazione di capitale
umano. Ancora, pensando alla Firenze di Leonardo
e alla Londra di Shakespeare, le agglomerazioni
urbane più importanti erano alimentate
da un notevole fermento intellettuale, culturale
e sociale. In altre parole, innovativo.
Oggi, più che un tempo, un luogo è
considerato appetibile quando riesce a richiamare
intelligenze dall’esterno e questa capacità
attrattiva è determinata dagli amenity
values, i fattori non strettamente economici
che hanno a che fare con il capitale intangibile.
Dunque conta la conoscenza, perché le
imprese si localizzano preferibilmente in un
luogo piuttosto che in altro quando, a parità
di altre condizioni, può trovare risorse
umane qualificate, intelligenze, saperi diffusi,
fermento creativo, ma conta anche una buona
qualità della vita. E poiché luoghi
con alto capitale umano e con aziende innovative
tendono ad attrarre a loro volta lavoratori
con alto capitale umano e aziende innovative,
ecco che si genera un circolo virtuoso.
Potremmo dire che in Umbria si sia innescato
questo circolo virtuoso?
È difficile rispondere affermativamente.
È necessario allora andare avanti in
questa riflessione per capire come le potenzialità
dei nostri luoghi possano sostenere meccanismi
che ne autoalimentino l’attrattività.
Se è vero che l’appeal di un luogo
dipende dal presidio di risorse umane qualificate,
intelligenze, idee, è più probabile
che la dotazione di tali risorse aumenti la
capacità di far emergere nuove potenzialità
e di trasformare le unicità sociali,
economiche e culturali di quel luogo in fattori
competitivi, alimentando dunque il richiamo
di attori economici esterni.
Questo è il punto.
Come ricorda Rullani, non sono le risorse in
sé a determinare il successo di un sistema
territoriale, ma la capacità di combinare
le stesse in maniera creativa integrandole con
potenzialità esterne. Sul concetto di
capacità creativa tornerò in seguito.
Tornando al tema portante, e stravolgendo la
vecchia visione del rapporto economia e territorio,
è lecito dire che se ieri il benessere
del territorio dipendeva dalla presenza delle
imprese, oggi è il benessere dell’impresa
a dipendere dai caratteri del territorio; di
conseguenza la competitività non è
più solo tra singole imprese ma anche
tra territori. La logica di questo interscambio
biunivoco tra impresa e territorio è
perfettamente descritta dall’esempio della
Silicon Valley. La valle californiana terra
di microchip, computer, software ha acquistato
un carisma unico enfatizzato dalla prestigiosa
Stanford University, una presenza non casuale,
che ha trasformato quel luogo nel simbolo della
ideale fusione tra cervelli e produzione, riuscendo
a trasmettere visioni culturali riconosciute
e riconoscibili nel mondo. La simbiosi uomo-territorio
è tale che un certo Steve Jobs, ricordando
i frutteti di cui un tempo il luogo natale della
Apple era fittamente disseminato, incaricò
un esperto agronomo di Stanford di restituire
l’80% della proprietà a paesaggio
naturale, con 6 mila alberi: «Mi assicurai
che [il campus] includesse un nuovo gruppo di
albicoccheti. Un tempo ce n’erano ovunque,
in ogni angolo. Facevano parte del patrimonio
di questa vallata (…). La Valley mi ha
dato molto. Devo fare del mio meglio per restituire
ciò che ho ricevuto».
Ecco dunque, oggi le imprese hanno nuove responsabilità
nei confronti della comunità territoriale
che le ospita, tese alla tutela e alla valorizzazione
degli elementi materiali e immateriali del territorio
stesso.
Questo aspetto delicato ma importantissimo,
del rispetto e della cura che ciascuna impresa
deve avere nei confronti del luogo che la ospita,
apre inevitabilmente a dibattute questioni di
sostenibilità ambientale, questioni importanti,
che da tempo stanno affliggendo anche l’area
ternana. Un esempio eclatante di come esigenze
produttive e lavorative si scontrino con la
qualità della vita di un luogo, riversandosi
immancabilmente sul suo appeal. Il problema
si intreccia con e rinvia a molti altri temi
intorno a cui si è acceso un ampio dibattito
sulla identità o meglio, sulla “costruzione
dell’immaginario contemporaneo della città”
di Terni, luogo distintivo e componente importante
dell’eterogeno luogo Umbria, almeno “duale”,
giusto per citare la tradizionale sintesi dell’immagine
economica della regione.
Eppure, nonostante la sua eterogeneità
interna, in un mondo dove primeggiano i grandi
agglomerati urbani per la loro capacità
di accentrare ricco e vivace capitale umano,
la nostra regione di una grande città
è priva. Una mancanza che, si pensa,
possa costituire una delle strozzature per lo
sviluppo del futuro della nostra regione.
Della potenza attrattiva contemporanea delle
grandi città sono personalmente molto
convinta.
Tuttavia, poiché i luoghi sono fatti
anche di territori rarefatti, presenti anche
in Umbria, vorrei chiamare in causa la filosofia
che ha guidato la Strategia Nazionale per le
Aree Interne, lanciata nel 2013 dal Ministero
per la Coesione Territoriale e ribadita dallo
stesso Fabrizio Barca nel corso del Festival
dell’economia di Trento del 2016. Le aree
marginali, quelle interne, soggette a spopolamento
per deficit di cittadinanza e non necessariamente
per il mancato sviluppo economico sono strategiche
perché possiedono importanti potenziali
elementi di appeal: spazi di libertà,
spazi vuoti, dove menti creative potrebbero
far emergere nuove idee e straordinarie opportunità
di sviluppo. Certo, servono politiche, calibrate
su interventi specifici, che sostengano i “guardiani
del territorio” a rimanere.
Nell’appeal di un luogo, la politica ha
dunque una grande responsabilità, quella
di saper estrarre da ciascun territorio il potenziale
maggiore, tenendo conto che i luoghi sono eterogenei
e i potenziali sono differenti, per cui servono
politiche mirate per ottimizzarne le vocazioni.
Sappiamo che anche l’Umbria è interessata
da questo intervento. Sono state individuate
tre aree interne (Area Nord Est, Sud-ovest,
Valnerina) che beneficeranno di fondi, statali
e strutturali, per il potenziamento e il rilancio
dei territori coinvolti. Si tratta di aree che
concentrano complessivamente un quarto della
popolazione regionale ma che si caratterizzano
per una densità demografica quasi dimezzata
rispetto a quella media umbra.
Vedete come torna in gioco il ruolo della concentrazione
del capitale umano.
L’eterogeneità dei luoghi e l’importanza
di coinvolgere in processi di potenziamento
del loro appeal si ripresenta con forza quando
si parla di cultura, la grande risorsa che può
rendere un luogo attrattivo anche da un punto
di vista economico.
Anche quando si ha a che fare con la progettazione
culturale non bisogna dimenticare che, economicamente
e idealmente - oltreché eticamente -
gli interventi dovrebbero interessare non solo
il tessuto cittadino ma anche le aree interne,
per accelerare nuove pratiche di riabilitazione
e valorizzazione di territori bisognosi di una
nuova identità, di un loro rilancio.
Perché lavorare con e per la cultura
può dare tanto, prima di tutto per lo
sviluppo umano e sociale, poi per lo sviluppo
economico, con un conseguente beneficio in termini
di appeal.
Cultura e produzione culturale sono diventate
risorse importanti (di fatto anche per quei
luoghi di cultura poco dotati) e la straordinaria
forza delle idee deve essere messa a servizio
anche in questo campo, nello sforzo teso a costruire
un domani facendo leva innanzitutto su ciò
che si ha. Lo abbiamo verificato con i percorsi
di rigenerazione delle città interessate
a diventare Capitale europea della Cultura,
dei Giovani e dell’Innovazione. Anche
il solo cimentarsi in queste sfide implica intraprendere
un percorso di riflessione e ripensamento delle
città da parte delle diverse voci della
collettività. E non importa se non si
esce vincitori: lo sforzo profuso ha comunque
stimolato idee, sollecitato confronti, attivato
progettualità, innescato relazionalità,
generato intelligenze collettive e dato vita
a energie creative.
Insomma, la creatività sembra segnare
un percorso ineludibile. Parafrasando il pensiero
di Rullani citato poc’anzi, è il
guizzo creativo che fa la differenza.
Ecco, se l’Umbria riuscisse a far emergere
e richiamare intelligenze e idee non in maniera
sporadica, ma in modo da fare massa critica
e che, interagendo, possano trasformare le unicità
e le potenzialità dei suoi luoghi in
fattori competitivi, sarebbe l’inizio
di una grande svolta.
In questo tentativo di assecondare un mondo
che sta cambiando, all'immagine dell’Umbria
di “terra del saper fare” si potrebbe
allora sostituire l’immagine di un’Umbria
“terra del saper creare”, ovvero
luogo della creatività, fucina di idee
al servizio della enfatizzazione della nostra
cultura e delle nostre diversità per
rendere più attrattivi i nostri luoghi.
E chi sa che in futuro non si possa riuscire
a coniare un nuovo slogan: Umbria creativity
land.
©Agenzia
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13 luglio 2018